Come filosofa pubblica, mi piace descrivere il mio lavoro con un pubblico di non professionisti come un invito a pensare. Sono giunta a pensare che sia il risultato ciò che definisce la pratica. A mio avviso, l'obiettivo principale della filosofia pubblica, che la distingue da altre forme di pratica filosofica, è promuovere la capacità e l'abitudine al pensiero filosofico. Organizzando laboratori filosofici con bambini, anziani, studenti o detenuti, il mio obiettivo è fornire qualche provocazione di pensiero e opportunità per ragionare e discutere insieme. Si vuole così aiutare le persone a sviluppare ed esercitare attitudini e capacità filosofiche, come la problematizzazione del dato, l'analisi di una domanda o il chiarimento concettuale. Oltre a queste ricadute cognitive, la pratica dell’indagine filosofica e del dialogo aiuta le persone a sviluppare l’attitudine a ricercare una sempre migliore consapevolezza di sé, ad ascoltare attivamente gli altri, e ad impegnarsi in un dialogo costruttivo con loro – tutti effetti formativi di enorme valore etico e sociale. Infatti, anche se il fine della filosofia – in quanto sapere sul sapere – è innanzitutto epistemico, il suo esercizio e la sua pratica possono avere anche un impatto sociale rilevante, in termini di partecipazione individuale, inclusività e creazione di legami comunitari. È proprio a proposito di possibili ricadute sociali della pratica che vorrei ora raccontare una specifica esperienza di filosofia pubblica.
L'esperienza di cui voglio parlare si sta svolgendo a Cremona, nel nord Italia, ed è promossa da Auser Cremona. Auser Italia (https://www.auser.it/ ) è una delle molte associazioni di volontariato presenti nel Paese, è diffusa su tutto il territorio nazionale, con – nel momento in cui scrivo – circa 50.000 volontari e 8 milioni di ore di volontariato svolte in un anno. Questo particolare progetto si chiama Auser VolontariAmo! Nato da un'idea di Donata Bertoletti, Presidente di Auser Cremona, si propone di coinvolgere adolescenti e giovani nel terzo settore e nel mondo del volontariato, con il molteplice intento di costruire legami sociali intergenerazionali all'interno delle comunità di cittadini (altrimenti difficilmente sperimentabili al di fuori della ristretta cerchia famigliare), e promuovere una cittadinanza attiva ad ogni età.
Perché abbiamo scelto di utilizzare la filosofia, come abbiamo proceduto e se ha funzionato è ciò che vorrei brevemente delineare qui.
L'esperienza di Auser VolontariAmo!
L’Italia è il secondo Paese, dopo il Giappone, con l’età media più alta (46,8 nel 2021, dati qui: https://ourworldindata.org/age-structure ). Nel 2021, solo il 12% circa della popolazione aveva meno di 14 anni, mentre circa il 24% della popolazione aveva più di 65 anni. Questa distribuzione influisce inevitabilmente su tutti gli aspetti della società e, ovviamente, sull’agenda politica. In una società sempre più anziana, le generazioni più giovani faticano a trovare la propria voce, o, forse meglio, faticano a trovare un modo per farla sentire. A ciò si aggiunge il fatto che i mezzi di espressione oggi preferiti dai giovani, i social media, sono raramente utilizzati dalle persone più anziane, il che porta ad una crescente difficoltà di comunicazione, e di comprensione, tra le diverse fasce di età. D’altro canto, la mancanza dei giovani (o la loro invisibilità) genera nelle generazioni più anziane la sensazione di essere lasciati soli con la responsabilità di gestire il presente e progettare il futuro.
Accade così che diverse generazioni si trovino a vivere separate, in mondi diversi, con diverse comprensioni del presente e speranze per il loro futuro. Una situazione che, in definitiva, porta all’aumento di fenomeni come l’ingiustizia intergenerazionale, la povertà educativa e l’isolamento sociale.
Se vogliamo intervenire in questa situazione e promuovere forme di collaborazione intergenerazionale, dobbiamo incoraggiare giovani, adulti e anziani a condividere le loro visioni del mondo, i loro valori e le loro diverse idee su cosa conta e cosa no. Dobbiamo aiutarli a capirsi. Questa è stata la spinta che ha originato e motivato l'esperienza di VolontariAmo!
Proponendo un'occasione di dialogo filosofico, abbiamo voluto creare una narrativa alternativa da quella che vede le varie generazioni divise su tutto e in lotta tra loro per le proprie idee di presente e futuro. Non è necessario mettersi d’accordo sugli stessi valori, opinioni, aspettative (personalmente non credo che ciò sia possibile, e nemmeno auspicabile). Ciò che è necessario, tuttavia, per creare e sviluppare legami sociali, è aiutare le persone a vedere i problemi e i bisogni altrui, aiutarle a riconoscere i loro principi, paure e speranze. Per questo abbiamo pensato che uno spazio per la parola (e l'ascolto) fosse il punto di partenza obbligato del lavoro: è qui che entra in scena la filosofia come pratica dialogica.
Pensa, condividi e ripensa! La pratica della filosofia
Un laboratorio filosofico, per come lo concepisco, è uno spazio per parlare, ascoltare e indagare razionalmente. È una pratica formalizzata dalla Philosophy for Children, la filosofia per i bambini, e successivamente dalla Philosophy for Community, filosofia per la comunità. Attraverso il dialogo filosofico, le persone sono portate ad esaminare insieme una questione. Provocato e guidato dal filosofo, il gruppo ragiona e discute il tema proposto. Ad esempio, abbiamo iniziato alcune delle nostre conversazioni con domande del tipo: “Cosa significa essere un volontario?”, “Cosa speri per il tuo futuro?”, “Quale supereroe (tra alcune opzioni disponibili) sceglieresti come modello per i tuoi figli?”, e molte altre. Nel dialogo, le persone condividono molto di se stesse, delle loro convinzioni e visioni del mondo. Permettono che le proprie opinioni vengano esaminate dagli altri, e riviste o confermate alla luce di una migliore consapevolezza delle stesse.
Un dialogo filosofico è diverso da una comune conversazione, poiché segue regole specifiche e ha un focus determinato. Nel dialogo filosofico lo scopo non è quello di dare sfogo all'io personale in una successione di storie e aneddoti personali – sebbene ciò avvenga anche in una discussione filosofica. Lo scopo semmai è quello di lavorare insieme per acquisire una comprensione più profonda della questione in esame. Mentre nella conversazione le parole si susseguono per raccontare una storia, o per dire qualcosa di se stessi, in una ricerca filosofica il discorso persegue uno scopo definitorio: vuole aspirare a definire concetti usati e significati sottesi. Non basta esprimere un giudizio o una valutazione, in una discussione filosofica chiediamo alle persone di spiegare le ragioni delle loro opinioni o le cerchiamo insieme. Si vuole andare in profondità, far emergere i presupposti epistemici, metafisici e morali (spesso irriflessi) e indagare le possibili implicazioni di un'affermazione. Si ricercano distinzioni e connessioni concettuali, ricostruendo progressivamente la questione in esame. L'aneddoto o l'esperienza personale possono trovare posto in un simile dialogo, ma dovrebbero servire a interrogare la questione o ad aggiungere elementi utili alla sua definizione. La filosofia si propone di tracciare i contorni semantici delle categorie utilizzate. Intendo questa attività come un impegno con le parole e con il pensiero e, di conseguenza, con la nostra realtà, poiché lavorare sui concetti significa affinare gli strumenti con cui interpretiamo e comprendiamo il mondo.
Molteplici sono gli obiettivi formativi della pratica. L’indagine filosofica aiuta ad acquisire una migliore comprensione di se stessi, dei propri valori e credenze. Nella mia esperienza, la pratica è anche particolarmente potente nel far emergere presupposti non riflessi, individuare pregiudizi e bias, chiarire posizioni e specificare accordi o disaccordi. Scegliendo diversi supereroi come modelli per i propri figli, ad esempio, un gruppo di genitori è arrivato a riconoscere di avere paradigmi educativi diversi, che abbiamo discusso ed esaminato insieme. Il confronto con i propri figli, che avevano anch'essi scelto il loro supereroe preferito, ha poi portato genitori e figli a comprendere il diverso valore che ciascuno di loro attribuiva ai diversi elementi coinvolti nel processo educativo (come talento, impegno, rispetto dei principi morali, ma anche importanza formativa dell’errore, e così via).
Accade così che le persone scoprano di vivere in “mondi diversi”, perché hanno credenze e sistemi di valori diversi che li orientano nella vita quotidiana. Condividendo e riconoscendo queste profonde differenze, si raggiunge una comprensione reciproca difficilmente ottenibile altrimenti, e gradualmente si diventa una comunità, una comunità di ricerca, ma anche educativa. Ognuno insegna qualcosa agli altri e tutti imparano insieme.
Ciò che diverse generazioni di cittadini hanno imparato le une dalle altre
Negli ultimi mesi abbiamo lavorato con gruppi di età diverse: bambini (4-11 anni), adolescenti (12-17 anni), giovani adulti (18-25 anni) e adulti di ogni età. Abbiamo organizzato anche occasioni di confronto intergenerazionale. Siamo ancora all'inizio di un'esperienza che speriamo continui a lungo, eppure la pratica ci ha già permesso di fare scoperte significative.
Sono emersi alcuni pregiudizi piuttosto radicati in ciascuna generazione nei confronti delle altre. All’inizio del nostro cammino, ad esempio, gli adulti sembravano uniti nell’accusare i giovani di mancanza di impegno, iniziativa e disponibilità a fornire aiuto e sostegno alle loro comunità. "Semplicemente non gli importa!", ricordo un volontario anziano dire in un incontro. Dal canto loro, i primissimi dialoghi con gli adolescenti sembravano caratterizzati da un sottofondo di generale diffidenza nei confronti degli adulti, che ai loro occhi apparivano indifferenti ai loro bisogni: “non ci ascoltano!” Nei gruppi sembrava quindi emergere una questione comune, anche se espressa in modi diversi: il problema della giustizia intergenerazionale. Adolescenti e anziani sembravano accusarsi a vicenda di fallimento in questo senso: i più maturi rinfacciavano ai giovani di aver rotto il patto di solidarietà tra generazioni, lasciando a loro tutti gli oneri della gestione della comunità. Mentre i giovani accusavano le generazioni precedenti di miopia o, peggio, di egoismo, per aver consumato in modo irresponsabile le risorse ambientali, lasciando le generazioni future sole ad affrontare la crisi climatica che loro hanno causato.
Chiarire questi risentimenti, quanto giusti o giustificati possano o meno essere, è il primo passo necessario per affrontarli. Questo è esattamente ciò che abbiamo fatto. Abbiamo lavorato su queste reciproche accuse, cercando di comprenderne l'origine e le motivazioni, e le abbiamo interrogate in un libero confronto. È così accaduto che quelle denunce, inizialmente così nette e decise, siano state progressivamente riviste e meglio articolate. L’accusa di “se ne fregano” contro i giovani è stata rivista e riformulata in “hanno preoccupazioni diverse da noi, che non avevamo considerato”. Non si è trattato dell'ingenua scoperta che potrebbe apparire sulla carta, bensì dell’esito di un confronto reale nel dialogo. È diventato evidente che il fatto che le generazioni più giovani possano apparire egocentriche, quasi completamente concentrate su obiettivi personali e poco impegnate nel volontariato o in attività pro bono, non fosse dovuto a egoismo o negligenza nei confronti delle loro comunità. Almeno non per molti di loro. Insieme abbiamo capito che uno dei motivi per cui i giovani sono così concentrati sul loro futuro professionale è che ne sono molto preoccupati. Il futuro professionale costituisce una delle principali cause di ansia per le giovani generazioni: domande quali “troverò una professione che mi piace?”, “riuscirò a conciliare vita privata e professionale?”, “troverò un lavoro qualsiasi o sarò costretto ad andarmene?" sono emerse nelle nostre discussioni. Questa presa di coscienza ha rappresentato un cambiamento netto nel modo in cui molti volontari anziani guardavano agli adolescenti, ha rotto alcuni stereotipi e ha consentito un rapporto diverso tra le due parti. Anche se le generazioni più anziane non hanno forse vissuto le stesse preoccupazioni, possono certamente comprendere e riconoscere la paura, e su questo terreno comune è possibile aprire un dialogo, costruire una relazione e progettare azioni congiunte per affrontare quelle paure.
Da parte loro, attraverso il dialogo e un confronto guidato, gli adolescenti hanno potuto rendersi conto che quello che a loro sembrava un disinteresse da parte degli adulti o anziani verso i loro problemi, spesso è in realtà il risultato di un'incapacità di riconoscere quei problemi come tali. Più che "non ci ascoltano", la questione sembra essere ancora una volta quella del riconoscimento: "ci guardano, ma non capiscono". Non è una questione di arroganza, disinteresse o paternalismo: molto spesso, è una questione di mancanza di strumenti e risorse, soprattutto conoscitive, che permettano a persone con storie ed esperienze di vita diverse di capirsi. (Questa riflessione ha motivato alcuni adolescenti a fare volontariato per aiutare gli anziani a familiarizzare con alcune delle questioni urgenti del mondo giovanile, come i social media e la questione ambientale, permettendo così loro di entrare nella realtà degli adolescenti).
L'esempio sopra descritto rappresenta qualcosa di effettivamente significativo. La sostituzione di alcune categorie e narrazioni con altre ha prodotto un enorme cambiamento nel modo in cui giovani e anziani si vedono e si relazionano. La scoperta di una comprensione reciproca – nonostante le differenze – è la base che consente agli adolescenti di entrare in una relazione più significativa con le generazioni più mature, e su cui si costruiscono i legami sociali. È sempre sulla comprensione reciproca che le persone possono trovare le risorse per lavorare insieme e aiutarsi a vicenda per perseguire i propri obiettivi e scopi. Come può esserci un'azione congiunta senza la condivisione di una visione? C’è quindi bisogno di una sorta di mediazione culturale tra le generazioni: è qui che può intervenire l’educazione – la formazione permanente –, ed è qui che, nella nostra esperienza, la filosofia ha fornito un contributo prezioso.
Sul ruolo formativo della filosofia
L'idea alla base di questo progetto, le sue iniziative e i suoi risultati attuali sono stati presentati a Educa 2023, il festival nazionale dell'educazione che si svolge ogni anno a Rovereto (TN), Italia. È significativo che un progetto volto a coinvolgere persone di ogni età nel volontariato sia stato selezionato da un festival dell'educazione. È il riconoscimento che un'esperienza di pratica filosofica può essere formativa per l'individuo e per l'intera comunità.
Come ho espresso sopra, mi piace concepire la filosofia pubblica come l’operazione di portare la filosofia, intesa come pratica di pensiero e di indagine, potenzialmente a tutti. Con questa particolare esperienza, la pratica dell’indagine filosofica è stata impiegata per costruire una comprensione condivisa della realtà, con l’ambiziosa aspettativa (poi confermata dai fatti) che il guadagno epistemico così raggiunto avrebbe fornito le basi per una comunità più forte e inclusiva e per la promozione di politiche sociali attente ai bisogni di tutti. Attraverso il dialogo filosofico, abbiamo portato persone di età, storie di vita, e istruzione diverse a ragionare insieme sulle loro speranze, aspettative e desideri per il loro futuro. Abbiamo permesso loro di creare nuovi, condivisi, orizzonti di significato. Abbiamo così constatato che l'esercizio della filosofia può fornire un prezioso contributo all'obiettivo molto generale di promuovere una cittadinanza attiva ad ogni età.
Ridefinendo le categorie, qualificando meglio situazioni, punti di vista e interpretazioni della realtà, la filosofia può correggere ingiustizie e miopie concettuali e può fornire una narrazione diversa, più consapevole della complessità del mondo in cui viviamo. La filosofia può aiutare le comunità di cittadini a costruire una visione condivisa del proprio presente e una migliore comprensione dei reciproci bisogni e speranze. Si tratta innanzitutto di un’impresa epistemica, legata al nostro modo di leggere e interpretare la realtà, eppure ritengo che questa operazione sia il prerequisito per qualsiasi forma di cittadinanza consapevole e inclusiva. Attraverso la pratica del dialogo filosofico, siamo riusciti a consentire a una nuova generazione di volontari di assumere un ruolo attivo all’interno delle loro comunità. Ma, cosa ancora più importante, stiamo permettendo loro di esprimere i loro bisogni e desideri per inserirli nell’agenda delle politiche sociali. Siamo ancora all’inizio di questa esperienza, eppure credo che si possa sicuramente affermare che la filosofia fatta con e per la comunità possa avere un impatto concreto e profondo sulla vita delle persone e sulle loro relazioni sociali.
BIO: Lucia Ziglioli ha un dottorato di ricerca in Filosofia conseguito presso l'Università di Pavia (Italia). Ha continuato il suo lavoro a Oxford (Regno Unito) e all'Università Blaise Pascal di Clermont-Ferrand (Francia). Oggi cura e gestisce FilosoficamenteLab, un'iniziativa di filosofia pubblica in Italia. Attraverso di essa, porta la filosofia a bambini, adulti e detenuti. Di queste esperienze e delle ragioni che le motivano scrive in varie sedi. La sua ultima pubblicazione è Filosofi dentro. Un’esperienza di filosofia tra le mura (Loescher 2023).